Silvia bottari

Silvia Bottari

Caregiver si diventa

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In Italia, circa 12 milioni di persone offrono assistenza gratuita a un proprio familiare, genitore, fratello o partner ecc. non più autosufficiente a causa di malattia o disabilità.

Non sempre si può individuare il momento esatto in cui si diventa caregiver familiare, a volte avviene per esigenza a seguito di un evento impattante che determina una disabilità improvvisa nel proprio caro, più spesso è l’esito di un processo degenerativo come nella malattia cronica quali possono essere le diverse forme di demenza.

In entrambi i casi diventare caregiver significa scegliere, o accettare, di assumersi un notevole carico di responsabilità verso cui non è per nulla scontato essere e sentirsi preparati. Sono molteplici e complessi gli aspetti psicologici che intervengono nell’assunzione del ruolo di cura. Sia che avvenga in modo improvviso a causa di un evento inatteso, sia che avvenga in modo graduale nel corso di una malattia, ciò che in primis cambia è la relazione con il proprio caro. Tra i sentimenti certamente più forti che investono il caregiver ritroviamo il vissuto di perdita, un vero e proprio lutto nei confronti di un “prima” che non tornerà più come lo abbiamo conosciuto, e un “poi” che sarà necessariamente diverso da come lo avevamo immaginato. Nostalgia e disillusione spesso abitano un presente che esige di imparare a stare nel cambiamento. Cambiamento nelle proprie abitudini, cambiamento nella relazione col proprio caro, cambiamento dei piani futuri.

Soprattutto nelle forme degenerative di demenza fare i conti con la perdita di autonomia e abilità progressiva del proprio familiare comporta un dolore prolungato che assume la forma di un lutto. Oggi si parla di Prolonged Grief Disorder, ovvero distress emotivo e fisico, prolungato e pervasivo, derivato dalla perdita di una persona cara , applicabile in realtà anche a soggetti soggetti che non hanno subito una perdita reale, ma hanno vissuto una perdita significativa in senso lato (divorzio, malattie terminali, ecc..) (Prigerson et al., 2008) o che assistono persone la cui patologia ha determinato una significativa perdita dell’autonomia e delle possibilità relazionali (Chiambretto et al., 2008).

Fare i conti con ciò che non c’è più e non ci potrà più essere significa approcciare il proprio ruolo di cura con curiosità e amorevole benevolenza e chiedersi cosa può dare di nuovo questa nuova condizione. E’ un processo intimo e faticoso che chiede di dare senso alla nuova situazione, altrimenti il rischio è il prevalere di dolore e inevitabile fatica e rabbia.

I momenti iniziali della nuova vita del caregiver possono essere dunque caratterizzati da senso di perdita, smarrimento e disorientamento, rabbia e paura. Tutte “normali” emozioni adattive a cui è bene dare accoglienza senza giudizio.

Nel momento in cui ci si rende conto di dover assumere il ruolo di caregiver non solo si fanno i conti con una nuova realtà relazionale, ma si entra anche in un mondo spesso nuovo e sconosciuto, quello della cura, della disabilità e della malattia, di cui non si conosceva nulla e in cui non è immediatamente facile muoversi. I caregiver non sono quasi mai tecnicamente preparati ad affrontare nè gli aspetti pratici nè gli aspetti burocratici dell’assistenza. E ci si ritrova sovente soli a dover riorganizzare la quotidianità, scovare risorse, gestire bisogni, trovare soluzioni a bisogni nuovi. Dalle visite mediche all’addestramento agli ausilii quando necessari, dagli aspetti previdenziali all’organizzazione familiare, il caregiver si trova a dover gestire una mole di informazioni nuove e di incognite di non facile comprensione. Il senso di impotenza può facilmente e presto lasciare il posto a sentimenti rabbia.

La rabbia è un’emozione potente che segnala una situazione di disagio e di ingiustizia percepita. Chiede di porre dei limiti e di prendersi cura di sè ripristinando una condizione di benessere e potere personale convogliando le proprie energie verso la risoluzione dei problemi e quindi il soddisfacimento dei propri bisogni. Non sempre però le cose vanno nella direzione desiderata e talvolta la rabbia devia la traiettoria riversandosi sul proprio caro. Ecco fare capolino a rifiuto e rancore, irritabilità e distacco emotivo, col prevalere di ansia e senso di affanno. Accettare l’ambivalenza è fondamentale per riconoscere dove ci si trova. Non è in tutta probabilità la persona di cui si ha la responsabilità della cura a farci arrabbiare ma la complessità della situazione stessa. Ricordarlo significa non correre il rischio di disumanizzare il proprio caro e riconoscere con benevolenza i propri limiti.

Riconoscere i propri limiti permette anche di sgravarsi del senso di colpa, spesso incombente e pesante, in chi si prende cura. La sensazione di non essere preparati, di non fare abbastanza, di non essere in grado, di non avere soluzioni quando poi di fatto una vera soluzione non c’è se non imparare a stare nel limite, ricade sovente sul caregiver come un sortilegio, costringendolo a fare sempre di più, preda dell’ansia e della paura, vittima dell’idea di non fare abbastanza. Imparare fin da subito ad affrontare le situazioni un passo alla volta, senza fasciarsi la testa pensando a un futuro lontano, e vivendo ogni difficoltà come occasione di apprendimento aiuta il caregiver a vivere il proprio ruolo con fiducia e benevolenza, in un’ottica non di urgenza ma di processo, nel quale si sta già facendo il meglio possibile.

Il caregiver, naturalmente, non può affrontare tutto questo da solo. Chiedere aiuto, sin da subito è fondamentale.

Quale che sia la motivazione che ha portato alla decisione della presa in carico, amorevole sollecitudine, senso di responsabilità o senso del dovere, è importante non sentirsi soli. Oltre a una auspicabile condivisione del carico con il proprio contesto familiare chi si appresta a diventare caregiver è bene che possa avvalersi di un sostegno psicologico per riorganizzare i propri vissuti e i propri pensieri e di un sostegno pratico, concreto di formazione nei confronti della malattia o disabilità, della dimensione pratica della cura e dell’assistenza e degli aspetti burocratici e legali.

L’Associazionismo,ovvero la possibilità di rivolgersi ad associazioni e gruppi di persone che stanno affrontando la stessa situazione di malattia o disabilità, è una risorsa preziosa per chiunque si affacci per la prima volta al caregiving.

Confrontarsi con persone “più esperte” per storia ed esperienza aiuta a non sentirsi soli, a contenere lo smarrimento, a legittimare i propri vissuti, a trovare soluzioni, informazioni e apprendere competenze. C’è spesso la resistenza nei caregiver neofita di rivolgersi a queste realtà per il timore di doversi scontrare con la brutalità degli esiti delle condizioni degenerative. Per molti essere messi di fronte precocemente a ciò che li aspetta o potrebbe aspettare è angosciante e bloccante. In questi casi vale la pena ricordare che ogni individuo è a sé, che ogni decorso di malattia segue un proprio percorso e che non è negando la realtà che ci si aiuta ma è accettando di averne paura che il caregiver può permettersi di avere coraggio di sfidare le difficoltà e rinnovare un giorno alla volta l’impegno del prendersi cura.

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